giovedì 16 ottobre 2008

Blanda analisi de Il Castello dei Destini Incrociati

Calvino prende i tarocchi e li dispone su un tavolo.
Poi li sovrappone l'uno all'altro, li mischia e li scambia.

I tarocchi hanno due significati.
Il primo è quello visibile agli occhi di chiunque. Il disegno. Il significante.
Il secondo è quello latente. Ciò che quell'immagine rappresenta in un linguaggio altro. Il significato.
Ne Il Castello dei Destini Incrociati, Calvino procede per immagini. Sovrapponendole l'una all'altra, ed accostandole. Ma senza mai scostarsi dal significante. L'unico fruibile a tutti. Soprattutto a uomini che son tutto tranne che cartomanti.
I suoi personaggi sono muti e l'unico mezzo che hanno per esprimersi sono proprio i tarocchi. E si servono di quelle figure per raccontare la loro storia. Calvino si declassa a mero traduttore di un ente superiore che predispone le sequenze da narrare. Il fato.

L'idea di narrare per tarocchi è originale, ma il risultato che ne esce, a mio avviso, è troppo macchinoso.
Le sette storie de Il Castello sono mal comprensibili, spesso interrotte dal narratore che introduce nuove carte e ne spiega la fisionomia.
Le storie de La Taverna dei Destini Incrociati, invece, sono molto più lineari. Leggermente arzigogolate ma molto più semplici e di impatto immediato.

Mi sento molto vicina a questa forma di narrazione, perchè se pur acerba, la mia mente procede per immagini. Le vede, le analizza e poi le racconta. E' come se qualcuno mi inculcasse un'idea, e da quell'idea ne venisse fuori una storia. In un processo a me del tutto estraneo.

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